L’amore che non ha bisogno di un nome.
di Pigi Mazzoli
pigi.mazzoli@libero.it
(pubblicato in "Pride", novembre 2005)

Ho capìto, di matrimonio neanche a parlarne. E poi, chi lo voleva? Sinceri o politicamente corretti, comunque tutti, più che spiegare i pacs italiani, hanno usato il loro spazio per spiegare che no, non si tratta di matrimonio. Qualcuno anche all’interno del centrosinistra ha detto anche che non servono questi atti pubblici, basta un atto privato, davanti al notaio. E la chiesa mentre dice che dio è amore e che un mondo senza dio è un mondo senza giustizia, ci vuole imporre, e forse riesce, la sua di giustizia, dove noi siamo dalla parte sbagliata. O siamo proprio da cancellare.
Che tristezza.
La Russa, nell’imminente sconfitta elettorale, proclama che è ora che la destra inizi a portare le sue idee con chiarezza e senza più remore. Torniamo ad un sano fascismo famiglia-patria-dio?
Comunque per noi non c’è posto, non c’è secondo Rutelli e neppure per Forza Italia.
Basta, parlo d’altro.

Internet. Ci sono siti che lasciano registrare le proprie fotografie a chiunque voglia condividerle con altri. Io e Franco l’abbiamo fatto su uno di questi, flickr di Yahoo! E mentre registravo le mie foto guardavo quelle degli altri. Credo che metà degli utenti siano gay. Alcuni lo dichiarano sùbito con una bella foto abbracciati con il loro uomo, quando non addirittura con un bacio sulla bocca. Di altri si scopre scorrendo le fotografie perché ad un tratto iniziano serie di scatti fatti in qualche gay pride. Da altri, invece, succosi reportage di tutte le più famose località balneari gay. Con tanto di cronaca visiva di tutti i più appetibili maschi presenti. In molti ho invidiato la capacità di osservare i dettagli, di sottolineare l’essenza di luoghi e persone tramite un piccolo particolare magari sfuggito ai più. Sono dei reportage maturi, fatti a volte anche con più di mille fotografie, con piccole didascalie. Pubblicare libri fotografici è sempre stato costoso, quindi l’impresa riusciva solo per i pochi celeberrimi o per chi, per passione, investiva di tasca propria. Ora con internet c’è questa democrazia, questa possibilità per tutti di far conoscere il proprio punto di vista.
Sì, sono ancora convinto che siamo tutti uguali, uomini o donne, gay o etero, ma mi sembra che noi froci, forse non distratti da matrimoni, figliolanza, asse ereditario, ma anche divorzio e comunione, abbiamo più tempo per guardarci intorno, per capire il mondo. Con un libro, con una canzone, con un’immagine.

Voi avete per caso avuto un amico diabetico? Io sì. Ogni tanto gli si formavano delle piaghe, una volta in una ascella, una volta all’inguine. Un giorno finì in ospedale dove gli amputarono mezzo piede. Qualche anno dopo divenne cieco e la sua vita finì, prima ancora di morire.
Mi viene in mente tutte le volte che sento dire che ormai infettarsi con il virus dell’HIV non è più una cosa grave, che ormai è curabile come il diabete, come qualsiasi malattia cronica. E forse è vero, ma bisogna sapere cos’è il diabete. Comunque io, che coi farmaci sono effettivamente sopravvissuto questo ultimo ventennio, continuo a pensare che sia una cosa molto grave. Ma non molti la pensano così, se è vero, ed è vero, che le sieroconversioni aumentano. Comunque ora ho trovato un endocrinologo che pare sia riuscito a mettermi a posto il metabolismo che era impazzito a causa dei farmaci. Mi sento molto meglio, quasi avessi solo il diabete, a parte il terrore di infettare il mio amato Franco, ma quello è un rischio che resta e non ha nulla a che fare con quel che si dice per sdrammatizzare. A meno di non essere degli incoscenti egoisti, la possibilità di infettare chiunque è un macigno che si porta sulle spalle ogni giorno. Checché ne dicano.

Nulla a che fare col problemino di come dare un nome al mio rapporto con Franco. Il matrimonio risolverebbe certo: “mio marito”, “mio marito”. Uguale per tutti e due, in fondo ci vorremmo rassomigliare più di quanto giò non sia. Eviterei la romanticheria di dire “il mio sposo”, più adatto ad una vedova di guerra ottuagenaria. E messi da parte i matrimoni, occhieggiando ai pacs, che sono contratti rigorosamente fra conviventi, potremmo dire “il mio convivente” (e mi ricorda un po’ l’anglosassone “my roommate” dove non si capiva bene dove fosse il limite fra maschio cameratismo e sesso di nascosto). Punto importante: io e Franco non abitiamo assieme, e neppure abbiamo in programma di farlo. Che sia obbligatorio convivere per provare che si ami? Non credo affatto. Per cui scartiamo convivente, ma anche compagno, un po’ perché potrebbe essere scambiato per un’affermazione di fede politica (nessun problema etico, ma non ci si spiega su che tipo di rapporto si ha), oppure, per una coppia giovane, potrebbe dare ad intendere all’interlocutore che si tratti di due studenti della stessa classe.
Spesso, ad esempio in quasi tutte le campagne per il sesso sicuro, si parla di partner, con questa parola, ancora una volta anglosassone, che incespica in una serie di suoni alieni a noi latini, che vorrebbe dire socio (in affari) ma che appieno ha assunto il significato di “due che fanno sesso ma non sono marito e moglie”. Personalmente mi torna alla mente una delle domande ricorrenti dei vari questionari: “quanti partner in un mese? In un anno?”. Mi spiego, questa parola la sento più affine ad amante occasionale, piuttosto che definire un rapporto tra due persone che si attraggono, ma che cercano di capirsi, di aiutarsi, di far felice l’altro, di dimostrare che è una cosa per sempre, non un’avventura. E poi non amo usare le parole inglesi parlando italiano, e se gay non fosse diventata la parola universale che è, e se esistesse una sua puntuale traduzione italiana, non userei neppure quella.
“Franco è il mio amico” “Il tuo amico o un tuo amico” “Il mio amico, stiamo assieme”. Ma non potremo certo affidare ad un articolo o all’altro di dare il senso della nostra storia. Scartiamo l’odioso termine “l’amichetto” che detto di due maschi che si inculano non può che essere ironicamente dispregiativo.
“Cerco un amico, complice, amante”, per fortuna la bella pellicola di Paul Bogart del 1988 ha smesso di ispirare i compilatori di annunci erotici, quel trinomio che distillava appieno il significato di una storia esemplare per molti gay, in mezzo alle ricerche di cazzi con fermo posta dava un tono bamboleggiante e lezioso. Ma anche i termini del trinomio presi ad uno ad uno non hanno gran senso. Se chiamassi Franco “il mio complice” giustamente si potrebbe pensare che siamo due ladri. E se dicessi “il mio amante” sarebbe giusto capire che finiamo regolarmente a letto ma che, una volta rivestìti, ognuno va per la sua strada fino all’incontro successivo.
Per ora rimane ancora in lizza “fidanzato”, anche se un po’ soffre del significato di provvisorietà, in attesa del matrimonio, o anche di prova di non deciso: “per ora siamo solo fidanzati” come dire che “vediamo come vanno le cose, se non mi piace mi tiro indietro, non sono ancora sposato”.
Gira e rigira il nodo è sempre quello. Noi (noi froci, intendo, e qualche etero di sinistra illuminato) davanti ad una coppia gay e ad una coppia etero, non vediamo differenze d’amore. Certo, sappiamo bene che fra due uomini non c’è utero, ovaie e quanto serve per la prole. Ma neppure davanti a una coppia etero la prima domanda che ci viene in mente è “uno di voi due è per caso sterile?”. Sterili o fecondi che siano, per noi sono una coppia e basta. Ed è forse per questo che si danno una grande pena a ribadire che l’unione tra un uomo e una donna è sacra, perché tolto quello, tolto l’abito bianco, rimarrebbero solo due persone che si amano e che, talvolta, fanno figli. E lasciamo stare il discorso che talvolta le madri ammazzano questi figli, e i mariti ammazzano le mogli, e i figli ammazzano i padri. Unione sacra è e rimane. Punto.
Giusto per il piacere dell’inventario, della pignoleria, vorrei citare quei termini, a volte fantasiosi, che anche Donna Letizia sconsigliava per gli eterosessuali. “La mia donna” che per noi sarebbe “il mio uomo” denuncia un rapporto di dipendenza ma anche di orgoglio verso la mascolinità dell’altro. Non da scartare del tutto, per alcuni sarebbe una definizione appropriata. “La mia metà”: senz’altro di origine profondamente poetica, dove si sottolinea che i due sono una cosa sola e che, singolarmente, sono meno di uno. Ma ormai si sente solo nelle barzelette, associato a grasse matrone che trascinano striminziti mariti. Io lo eviterei per un po’.
“La mia signora” che suona, per gli eterosessuali, come una eccessiva adorazione (e a volte ipocritamente falsa) verso la parte femminile della coppia, potrebbe per noi assumere anche un significato erotico. “Il mio signore” mi fa subito pensare di essere di fronte ad una coppia padrone-schiavo ben affiatata.
Saltiamo a piè pari tutta quella serie di leziosaggini fuori moda ispirate alla peggiore letteratura rosa. Per cui eviterei “il mio lui” quanto “il mio tesoro”, ed ovviamente tutti i ciccini e topini vari. Che, detto tra noi, vengono detti con tanta tenerezza quando ci si ama ma vengono ripetuti con tanto disprezzo quando ci si lascia litigando, “ciccino, m’hai rotto i coglioni!”. Restiamo sobri e civili e cerchiamo di evitare tutti questi termini smancerosi, che sono poi ridicoli per l’osservatore esterno.
Ma cosa perdo tempo ad usare lo stesso dizionario di quelli che si possono sposare? Non possiamo sposarci? Non possiamo neppure aspirare ad un contratto ufficiale? Se ci vogliono spedire dal notaio allora potremmo trovare altri termini. “Il mio contraente” potrebbe suonare bene. Ma allora andiamo piuttosto a termini di fantasia. Come sarebbe “il mio coso”? “Il mio omoerotico”? Oppure che dire di “il mio innominabile” o “il mio non certificato”, “la mia profana libertà” (che sarebbe poi il mio non-sacro non-vincolo).

Basta basta. Continuerò a dire Franco, e Franco continuerà a dire Pigi. tanto tutti sanno cosa è Franco per me e che cosa è Pigi per lui. E quando dovrò farlo sapere a qualche nuovo conoscente, uno un poco sprovveduto che proprio non riesce a capire, neppure quando dico “Franco è il mio amico” sottolineando “mio” col tono della voce, magari il giovane macellaio che neppure immagina, farò capire con la mimica del viso della maschia soddisfazione che ho dal rapporto. Ma se sarà l’anziana giornalaia cercherò nelle similitudini a lei più vicine la chiave per spiegare, suggerendo ad esempio un rapporto simile a quello tra padre e figlio, o tra fratelli un po’ speciali.

Franco, che parola meravigliosa, sei lettere come i colori della bandiera gay. Per me il suono di questa parola ricorda le risate e le trombate, le dormite uno sull’altro, l’odore del mare e dei capelli scompigliati dalle dita, il cibo condiviso, la parola di conforto e la fiducia in quello che verrà domani.
Non mi servono, non ci servono, altre parole.