Mal comune...
di Pigi Mazzoli
Pubblicato su "Pride", dicembre 2001


Essere hiv+ è un fatto privato? Senz'altro non è un fatto di cui vergognarsi, ma quanto è giusto dirlo agli altri? Cosa mettiamo in gioco con la nostra onestà? Quanto rischiamo di perdere?

Quando scopriamo di essere sieropositivi ci troviamo a dover fare una scelta: decidere quali persone mettere al corrente. Sono diversi i motivi che dobbiamo prendere in considerazione: l'onestà verso le persone care contrapposta al nostro timore che la notizia le possa inutilmente addolorare e sconvolgere chi, magari gli anziani genitori, non riuscirebbe a sopportare lo stress; la paura di essere emarginati, comunque considerati diversi, contrapposta alla necessità di avere qualcuno con cui parlarne; la certezza che questo sconvolgerà la nostra vita sessuale ed affettiva e che ci fa vedere nella dissimulazione della malattia la continuazione dei nostri rapporti "normali"; la paura che la notizia possa passare di bocca in bocca fino ad arrivare all'orecchio di persone che mai vorremmo sapessero del nostro stato.
Il più delle volte sono gli amici più cari il banco di prova della nostra rivelazione, segretamente li usiamo per fare le prove delle nostre e delle altrui reazioni. Creiamo nella nostra mente tutto il copione da recitare, poi magari abbandoniamo tutto e facciamo una dichiarazione di getto, spontanea. Stiamo ad ascoltare più le nostre emozioni che le altrui risposte. Quando del tempo sarà passato guarderemo con tenerezza questi nostri goffi e disperati tentativi di comunicare ricordandoci che, allora, eravamo così sconvolti da non aver effettivamente molti altri mezzi per ritornare alla realtà. Ringraziando di aver avuto amici intelligenti, buoni, forti. Se ci càpita di fidanzarci, e al fidanzamento pensiamo subito, anche solo dopo pochi sguardi contraccambiati, il pensiero fisso è come fare a dirlo. E senz'altro poi lo diremo, anche sapendo che questo cambierà il rapporto, ineluttabilmente. Capiremo anche che essere in due significa non essere più autonomi rispetto alla scelte di vivere pubblicamente la malattia, e ci accorgeremo con amarezza che a volte il pregiudizio è ancora più crudele con chi divide la vita con noi che con noi stessi. Col tempo possiamo arrivare alla serenità sufficiente per poterlo dire a tutti, senza temere che ne possa soffrire la nostra felicità a causa delle reazioni altrui. Corriamo al limite il rischio di apparire addirittura esibizionisti rispetto al nostro stato, la nostra sincerità assoluta può venir interpretata come una richiesta di affetto, consolazione, ed invece potrebbe essere solo l'ennesimo tentativo di sentirsi normali esorcizzando la malattia. Rendendola pubblica non avrà più bisogno di spiegazioni, non dovremo più neppure dirlo, lo si saprà. Non vedremo cambiamento negli altri, perché gli altri sapranno già chi siamo quando ci conoscono.
Credo che per un sieronegativo questo discorso sia un po' oscuro. Probabilmente per loro l'hiv è, seppur grave, solo una malattia. A volte, senza saperlo, siamo noi a confortare loro rappresentando lo spettacolo della persona piena di speranza ed equilibrata. Lo abbiamo detto ai genitori, al fidanzato, abbiamo buttato su di loro parte del nostro peso perché ci aiutino a portarlo. Sappiamo che per loro sarà anche più pesante che per noi perché noi possiamo trovare la forza della rassegnazione, mentre loro hanno solo il peso dell'impotenza. Con che coraggio potremmo gravare ulteriormente con le nostre piccole depressioni, il nostro sconforto? Con che coraggio potremmo scaricare su di loro altra infelicità? Ed allora cerchiamo di dissimulare il momento di tristezza, o l'apatia che ci prende davanti alle cose per cui loro si stanno tanto entusiasmando. Fingiamo di sorridere per una commedia per noi senza senso. A volte sono tentato di chiamare "Telefono amico" per potermi sfogare con qualcuno che, non conoscendomi, non amandomi, non potrà soffrirne più di tanto. Oppure ci sfoghiamo col nostro medico, ma non trovando il coraggio o le parole per esprimere il nostro male di vivere, ci accontentiamo di lamentarci di medicine, di nausee, di diarree, di forze che non ci sono più. Siamo almeno liberi di parlare in ospedale di un lato negativo senza provare sensi di colpa. Per trovare la forza, lo spirito, di vestire la maschera del "fisicamente sto bene" quando ritorneremo poi tra le persone care. Non siamo preoccupati della nostra salute fisica quanto lo sono invece i nostri cari, mentre loro non immaginano neppure quanto sia sconvolgente per noi, per chi siamo, l'essere infettati. E vogliamo che non lo sappiano, almeno non del tutto. Non hanno come noi tutta una vita da dedicare al recupero della serenità.
Fra di noi, invece, ben venga la solidarietà, bastano poche parole e ci si capisce. Non mi fa male sapere i problemi altrui, anzi, mi aiuta a sopportare i miei. Non è "mal comune mezzo gaudio", non è chiudersi in un ghetto: è la gioia di non essere soli.

Magari passa un anno, ma la verità in un modo o in un altro viene a galla.


Molti penseranno automaticamente che anche il nostro fidanzato sia sieropositivo. E lo tratteranno come tale. Questo lo farà indignare perché capirà a che trattamento stupido e crudele vi hanno sottoposti fino ad ora per ignoranza o solo per inadeguatezza. E vi sarà allora ancora più vicino.

Soprattutto partecipare le esperienze di altri nelle mie condizioni mi rassicura sul fatto che ci si possa vivere, e anche abbastanza bene. Ma non è sempre così, chi è sieropositivo può nascondere anche ad altri sieropositivi il suo stato, questo ci dà la misura di quanto sia difficile condividere questo segreto. Io credo si debba invece avere tutto il coraggio possibile. Oggi forse siamo noi a dare forza agli altri, domani saremo noi ad avere bisogno di un aiuto. Questo significa vincere, questo significa vivere.